DEFINIZIONI CONCETTUALI: DISCRIMINAZIONE, PARI OPPORTUNITÀ ED UGUAGLIANZA


Alla luce di quanto detto in premessa, approfondire la disciplina attinente alla salute e sicurezza sul lavoro, significa preliminarmente esaminare la normativa, sia comunitaria che nazionale, dedicata alla discriminazione di genere riferita al mondo del lavoro.
Affrontare la tematica delle politiche di eguaglianza e pari opportunità intraprese nel nostro Paese, in tale settore, è tutt’altro che semplice, essenzialmente per due ragioni.
In primo luogo, il sistema delle fonti.
È ormai di ampissima portata il materiale normativo in materia, il quale ha subito,come era giusto ed opportuno che fosse, le positive influenze della ricca elaborazione comunitaria, che si è giocata sul filo di una complessa e talvolta tormentata dialettica, fra fonti normative e giurisprudenziali della Corte di Giustizia.
In secondo luogo è di rilevante importanza, l’apparato concettuale di riferimento.
È importante dunque per una migliore comprensione, chiarire in primis le nozioni,non sempre lineari, di “parità”, “eguaglianza”,“non discriminazione” e “pari opportunità”,così come concepite dal diritto nazionale e non.
Non si può di fatto intraprendere l’analisi normativa, senza aver prima chiarito i termini ed i concetti che ne stanno alla base.
Vi è consenso generale intorno al fatto che la discriminazione sia una violazione di un diritto umano, la quale implica uno spreco dei talenti umani, con effetti negativi sulla produttività e sulla crescita economica. Essa genera disuguaglianze socio-economiche che minano la solidarietà e la coesione sociali e agiscono da freno sulla riduzione della povertà.
La promozione dell’uguaglianza di opportunità e di trattamento dunque, è necessaria per muoversi verso l’eliminazione della discriminazione nella normativa e nella pratica.
Nella definizione di questo importante e diffuso concetto, occorre rapportarci anche a fonti esterne al nostro Paese, provenienti dall’ambito internazionale.
Il principio di non discriminazione di genere ha da sempre costituito, nell’ambito dell’ordinamento internazionale, prima ancora che in quello nazionale, uno dei principi cardine.
Sin dalla Carta di San Francisco del 1945, infatti, le Nazioni Unite si sono prefisse,tra l’altro, lo scopo fondamentale di “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso,di lingua o di religione…”.
Parimenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, è affermato all’art. 2 che “…a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione….”.
Tale principio, poi, è stato ripreso e riaffermato nei Patti internazionali sui diritti dell’uomo,adottati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1966, e ulteriormente trasfuso in quel documento noto come International Bill of Rigths, la Carta internazionale dei diritti umani.
Nel 1979 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw),in cui per la prima volta è specificamente definito il concetto di discriminazione di genere, nell’assunto che lo sviluppo e il benessere delle moderne società democratiche,possano compiersi solo con la partecipazione piena delle donne, in condizioni di parità con l’uomo, in tutti i settori dell’agire umano.
A livello europeo poi, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, è espressamente affermato il principio per cui il godimento dei diritti e delle libertà “… deve essere assicurato senza nessuna discriminazione,in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua,…” (art. 14).
Da allora, attraverso l’Atto Unico Europeo, i Trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza fino alla Carta Costituzionale europea, ratificata nel nostro Paese con legge 7 aprile 2005, n. 57, il principio di non discriminazione di genere è sempre stato enunciato e ricompreso tra quelli fondanti l’ordinamento comunitario.
Non può dirsi altrettanto diretta, l’individuazione del concetto di discriminazione di genere nell’ambito dell’ordinamento interno.
Se può ritenersi vero che nella Costituzione manchi una specifica definizione di “discriminazione contro le donne”, sopperendo al riguardo sul piano sostanziale il principio di eguaglianza enunciato all’art. 3, non è altrettanto vero che “nella legislazione” detta definizione non sia rinvenibile con un’attenta operazione di ermeneutica giuridica.
Andiamo per gradi. La Cedaw dispone, all’art. 1, che “l’espressione discriminazione nei confronti delle donne, concerne ogni distinzione esclusione o limitazione basata sul sesso che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o eliminare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato civile, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico,economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo su base di parità tra l’uomo e la donna”.
Detta Convenzione è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 ed è entrata in vigore, nell’ordinamento internazionale, nel 1981.
L’autorizzazione alla ratifica e poi, l’ordine di esecuzione in Italia, sono stati dati con la legge n. 132 del 14 marzo 1985 e le norme della Convenzione sono entrate in vigore nel nostro ordinamento nel luglio del 1985.
Pertanto non v’è dubbio che dal 1985, la definizione di discriminazione di genere abbia fatto il suo formale ingresso nel nostro ordinamento giuridico, negli stessi esatti termini contenuti nell’art. 1 della Convenzione.
Con l’ordine di esecuzione contenuto nella sopra richiamata legge di autorizzazione infatti, è stata formalmente disposta l’applicazione di tutte le norme di quest’ultima come se fossero norme di diritto interno, e quindi anche di quella che definisce giusto appunto, il concetto di discriminazione di genere.
Se consideriamo il rango che oggi è riconosciuto alle norme internazionali pattizie,a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, la suddetta definizione normativa non solo è già presente nel nostro ordinamento, ma non può neppure essere contraddetta o comunque ridotta nella sua ampia formulazione, da eventuali leggi nazionali. Ove ciò avvenisse infatti, la relativa norma risulterebbe necessariamente incostituzionale per violazione dell’art. 117 della Costituzione che in oggi, come già precisato, vincola la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali.
A ciò si aggiunge, che con legge 7 aprile 2005, n. 57 è stato ratificato con contestuale piena ed intera esecuzione il Trattato che adotta la Costituzione europea, la quale espressamente riconosce tra i suoi valori fondanti e persegue tra i suoi obiettivi fondamentali la “parità tra donne e uomini”, e disciplina altresì compiutamente, nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali, quello di eguaglianza in tutti i suoi aspetti, dalla non discriminazione basata sul sesso, alla piena parità tra donne e uomini che deve essere assicurata in tutti i campi.
Tali specifiche disposizioni, pertanto, sono parimenti entrate a far parte dell’ordinamento interno con il nuovo rango assunto dalla normativa internazionale pattizia e spiegheranno i loro effetti secondo quanto disposto dall’articolo IV-447 del Trattato,con ciò concorrendo a rafforzare e definire ulteriormente il sopra richiamato concetto di discriminazione di genere.
La Convenzione n. 111 adottata dall’OIL nel 1958, definisce la discriminazione come“qualsiasi distinzione, esclusione o preferenza fatta sulla base di razza, colore, sesso,religione, opinione politica origine nazionale o estrazione sociale, che abbia l’effetto di pregiudicare del tutto o in parte la parità di trattamento e opportunità nell’impiego e nell’occupazione”.
Sulla base delle informazioni raccolte dagli Stati membri il CEACR,Comitato degli Esperti per l’Applicazione delle Convenzioni e delle Raccomandazioni, ha evidenziato che molti Paesi sono state riconosciute altre cause di discriminazione oltre a quelle sopra menzionate nella convenzione n. 111. Si includono fra le altre cause la disabilità, l’età, lo stato di salute, l’appartenenza a sindacati e lo stato di famiglia.
La discriminazione può avvenire durante la ricerca del lavoro, sul lavoro e o nel momento in cui lo si lascia.
Può consistere in un trattamento diverso e meno favorevole di alcuni individui a causa di una delle caratteristiche sopra menzionate indipendentemente dalla loro capacità di soddisfare i requisiti richiesti per il lavoro.
La discriminazione non è un avvenimento eccezionale o anormale, bensì un fenomeno sistematico, spesso intrinseco al modo in cui si opera nei luoghi di lavoro e radicato nelle norme e nei valori culturali e sociali prevalenti. Ogni discriminazione produce disuguaglianze che pongono le vittime della stessa in una situazione sfavorevole,compromettendo il loro accesso alle opportunità di impiego.
La tutela delle pari opportunità è considerata una dei molteplici aspetti e declinazioni,rapportabili al più generale principio sopra espresso della parità e uguaglianza tra i sessi.
Le politiche di pari opportunità fra uomini e donne sono un insieme di interventi delle istituzioni, finalizzati ad eliminare gli ostacoli alla partecipazione politica, economica e sociale dovuti all’appartenere a uno dei due sessi: esse partono quindi dal presupposto di una diseguaglianza esistente, a svantaggio delle donne, che deve essere superata con strumenti normativi e di controllo e con iniziative di riequilibrio di opportunità e poteri.
Lo sviluppo di queste politiche in Italia è stato fortemente ritardato rispetto ad altri Paesi per ragioni storiche e culturali.
L’unità italiana è infatti avvenuta con un’impronta nettamente conservatrice in termini morali e giuridici, con uno status della donna pienamente subordinato all’autorità maschile, e il principio di tutela della donna timidamente emerso alla fine del secolo scorso era finalizzato alla protezione dell’essere più debole e strettamente funzionale all’esercizio della maternità, in un quadro di accentuata disparità di trattamento nella vita privata e di esclusione della donna dalla vita pubblica.
Le battaglie per il diritto di voto, l’accesso all’istruzione e ai pubblici uffici, la parità salariale trovano un riconoscimento solo dopo la seconda guerra mondiale, quando la Costituzione sancisce la parità formale tra i sessi di fronte alla legge e sul lavoro.
Proprio la Carta Costituzionale getta le basi delle future politiche attive di parità, con il riferimento alla rimozione degli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza tra i cittadini. Ma il concetto di pari opportunità riesce a farsi strada solo molti anni dopo, in una stagione di grandi movimenti sociali e riforme in cui le donne diventano protagoniste e soggetto politico.
Le politiche sulle pari opportunità prendono l’avvio da nuovi pensieri e movimenti,comunque fondati sulla valorizzazione della differenza di genere e sull’affermazione del punto di vista femminile contro quello falsamente neutrale della norma maschile.
Solo negli anni Settanta la legislazione riconosce il principio della parità nelle diverse sfere della vita sociale, dalla famiglia al lavoro, e istituisce i primi organismi espressamente finalizzati a perseguire l’uguaglianza di opportunità, all’inizio con funzioni consultive e quindi anche di iniziativa e di controllo.
Conferma di tale svolta nella coscienza sociale del Paese, viene data dall’art. 1, legge Costituzionale n. 1 del 30 maggio 2003, il quale aggiunge un periodo fondamentale e denso di significato all’art. 51 della nostra Costituzione: “ tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini..” .
Sin dai primi anni di attività della Corte Costituzionale, il parametro di cui all’art. 3 della Costituzione, ha assunto un ruolo di preminenza nei giudizi di legittimità costituzionale, e ciò in quanto, come affermato nella sentenza n. 25 del 1966, “è principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura”, nonché “canone di coerenza … nel campo delle norme del diritto”(Corte Cost. n. 204 del 1982).
In realtà, la lettura che la giurisprudenza della Corte ha dato del principio di eguaglianza inteso in senso sia formale, quale regola della forza e dell’efficacia della legge, sia sostanziale quale regola del contenuto della stessa, ha portato a enucleare anche un generale principio di “ragionevolezza”. Alla luce di questo, la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali e in maniera razionalmente diversa situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova giustificazione nella diversità delle situazioni disciplinate.
“Il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni”(sent.n. 15 del 1960), poiché “ l’art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni irragionevoli” (sent. n. 96 del 1980).
Il principio in oggetto “deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione” (sent. n. 3 del 1957), con la conseguenza che il principio risulta violato “quando di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee,si ha una disciplina giuridica differenziata determinando discriminazioni arbitrarie ed ingiustificate” (sent. n. 111 del 1981).
Se così è, se il giudizio di uguaglianza postula l’omogeneità delle situazioni messe a confronto, “non può essere invocato quando trattasi di situazioni intrinsecamente eterogenee” (sent. n. 171 del 1981), “quando si tratti di situazioni che, pur derivanti da basi comuni, differiscono tra loro per aspetti distintivi particolari” (sent n. 100 del 1976).
Pertanto, il giudizio secondo l’art. 3, si articola in due momenti.
Il primo destinato a verificare la sussistenza di omogeneità fra le situazioni poste a confronto, “quel minimo di omogeneità necessario per l’instaurazione di un giudizio di ragionevolezza” (sent. n. 209 del 1988); il secondo subordinato all’esito affermativo del precedente, destinato a stabilire se sia razionale o meno la diversità di trattamento predisposta per le stesse dalla legge.
Se infatti, “ la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore” (sent. n.3 del 1957), tale discrezionalità non può trascendere i limiti stabiliti dal primo comma dell’articolo in esame.
Quindi, “ si ha violazione dell’art.3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche” (sentenza n. 34 del 2004).
Per quanto concerne l’ambito soggettivo di applicazione del suddetto principio, la Corte ha costantemente ritenuto la valenza generale del medesimo.
Come specificato dalla sentenza n. 25 del 1966, il principio di eguaglianza vieta che la legge ponga in essere una disciplina discriminatoria non giustificata,e questo indipendentemente dalla natura e dalla qualificazione dei soggetti ai quali vengonoimputate.
Il Principio non opera diversamente qualora vengano in considerazione “soggetti diversi dall’uomo”. Pertanto, la Corte ha ritenuto che il disposto de quo valga anche nei confronti delle persone giuridiche, dell’associazioni, dello Stato.
La graduale ma notevole evoluzione che il Principio ha subito nel corso degli anni ha portato ad un sempre più marcato riconoscimento della parità fra cittadini di sesso maschile e di cittadini di sesso femminile.
Così, per la Corte nel 1958 è “naturale che pur avendo posto il precetto dell’uguaglianza giuridica delle persone dei due sessi, i costituenti abbiano ritenuto che restasse al legislatore ordinario una qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell’intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone” (sent. n. 56 del 58).
L’art. 3 Costituzione, “che tende ad escludere che privilegi e disposizioni discriminatorie tra i cittadini, prende in considerazione l’uomo e la donna come soggetti singoli,che nei rapporti sociali godono di eguali diritti ed eguali doveri. Esso tutela la sfera giuridica della donna ponendola in condizioni di perfetta eguaglianza con l’uomo rispetto ai diritti di libertà, alla immissione della vita pubblica, alla partecipazione alla vita economica ed ai rapporti di lavoro, ….” (sentenza n. 126 del 1993).

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