Preposto : ruolo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

Premessa: il decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e il ruolo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione - 2. Gli adempimenti richiesti al R.S.P.P. e i “confini” della sua responsabilità penale - 3. La significatività del ruolo ricoperto connota il “carico” di responsabilità assunto. Profili critici - 4. Le (più) recenti pronunce giurisprudenziali delineano il fondamento della responsabilità penale per il R.S.P.P..

1. Premessa: il decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e il ruolo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

Il decreto legislativo n. 81 del 2008, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, ha sostanzialmente concluso l’iter normativo finalizzato al riassetto ed alla riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. L’entrata in vigore del suddetto decreto legislativo, tuttavia, deve essere considerata come un nuovo punto di partenza (e non invece come un definitivo punto d’arrivo) nella logica del contrasto agli infortuni e alle malattie professionali sul lavoro.

Il nuovo complesso normativo ha, infatti, introdotto rilevanti novità – prime tra tutte, l’espresso riconoscimento di precisi requisiti di validità della delega di funzioni e di limiti e condizioni di efficacia della stessa, nonché l’individuazione di obblighi del datore di lavoro non delegabili – ma ha pure meglio esplicitato (rectius: confermato!) alcune peculiarità che già caratterizzavano la precedente disciplina[1].

In tal senso, sulla falsariga di quanto previsto dalla direttiva “quadro” n. 89/391/CEE, e di quanto già recepito dal legislatore italiano con il decreto legislativo 626 del 1994, anche la logica del recente sistema delineato muove dalla cristallizzazione di alcuni punti fermi. Ed, infatti, un’attenta esegesi del “nuovo” impianto normativo denota anzitutto l’esigenza di uno spiccato e crescente tecnicismo, nonché di una più qualificante professionalità, nel quadro degli adempimenti imposti per realizzare un’idonea politica di prevenzione degli infortuni e della malattie sul lavoro. Tali esigenze, da un lato, rivelano come non sempre i soggetti titolari di numerosi obblighi di condotta sanzionati penalmente possano esser in grado di adempiere “personalmente” tutti i compiti correlati alla loro qualifica; dall’altro, logicamente, comportano che, quanto più aumentino dimensioni e complessità dell’impresa, tanto più sia irrealistico ritenere che gli adempimenti in materia di sicurezza possano essere soddisfatti da un unico soggetto, il datore di lavoro[2]. Infine, la ratio stessa del decreto legislativo e le misure predisposte palesano come la finalità di prevenzione o, quantomeno, di contenimento degli infortuni sul lavoro possa essere perseguita efficacemente soltanto attraverso una procedimentalizzazione dei comportamenti all’interno dei luoghi di lavoro.

Del tutto fisiologico è, dunque, il tentativo di razionalizzare ed individuare ulteriori “centri di intervento” dotati di un certo grado di autonomia rispetto ai settori affidati alle loro competenze, nonché processi decisionali caratterizzati da un elevato grado di plurisoggettività: in questo modo, infatti, si potrebbe “auspicare” una parcellizzazione dei rischi se non addirittura una “condivisione delle responsabilità”.

In tale sistema si coglie l’importanza di una definizione del canone di responsabilità che interessa i componenti del Servizio di Prevenzione e Protezione (s.p.p.), nonché il relativo responsabile (r.s.p.p.), oggi definito dall’art. 2 lett. f) d.lgs. 81/2008[3]. Suddetta ultima figura si erge, invero, ad assoluto protagonista in «tutti i capisaldi normativi entro cui si snoda la disciplina della sicurezza»[4]; gli adempimenti che gli competono, infatti, tratteggiano un modus operandi che, se correttamente funzionante, costituisce il fulcro di un qualsivoglia sistema di sicurezza.

Il datore di lavoro è, così, tenuto a fornire al R.S.P.P. informazioni in merito alla natura dei rischi, all’organizzazione del lavoro, alla programmazione e all’attuazione delle misure preventive e protettive, alla descrizione degli impianti e dei processi produttivi, ai dati del registro degli infortuni e delle malattie professionali, alle prescrizioni degli organi di vigilanza, etc.; corrispondentemente, il R.S.P.P. deve coadiuvare il datore di lavoro nell’assolvimento dei suoi doveri, fornendo competenze tecniche ed organizzative. Tuttavia, il R.S.P.P. non pare avere un autonomo obbligo di effettuare controlli sulla effettiva applicazione dei presidi antinfortunistici ed, anzi, il “ruolo” che gli viene affidato sembra assimilabile a quello di una consulenza (tecnica) specializzata e quindi a quello di una prestazione di assistenza più che all’individuazione di un centro autonomo di responsabilità: in altre parole, egli pare privo di quella “posizione di garanzia” che il legislatore ha incardinato espressamente in capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto, nell’ambito delle loro rispettive attribuzioni.

È però opportuno chiarire, sin da ora, come sebbene il R.S.P.P. sia (essenzialmente) un organo di “studio e consulenza”, dotato di una particolare competenza in materia infortunistica, e sebbene lo stesso non abbia poteri decisionali né di “intervento attivo” nel settore della sicurezza, ciononostante tale soggetto non venga affatto individuato dal decreto come strumento meramente passivo, attivabile solo se e quando il datore di lavoro lo richieda (e nei limiti in cui sia richiesto): in altri termini, in capo al R.S.P.P. dovrebbe rinvenirsi (una volta ricevuto ed accettato l’incarico) un “onere di attivazione automatica”, un vero e proprio “dovere di impulso” anche rispetto ad un datore di lavoro (che si riveli, successivamente,) inerte.

La peculiarità degli adempimenti e degli obblighi attribuiti al R.S.P.P., conseguentemente, riflette e colora i tratti caratterizzanti di una (eventuale) responsabilità penale di quest’ultimo.

2. Gli adempimenti richiesti al R.S.P.P. e i “confini” della sua responsabilità penale

Nonostante il ruolo del R.S.P.P. consista (essenzialmente) in un’attività di consulenza tecnica ed organizzativa – scevra di qualsivoglia apporto decisionale rispetto alla politica di impresa adottata – deve, tuttavia, escludersi che tale soggetto “goda di un totale esonero da ogni responsabilità” (penale e civile)[5]. È possibile, infatti, che l’infortunio o la malattia professionale si verifichino proprio a causa dell’errato svolgimento dei compiti del R.S.P.P. e che quest’ultimo non possa, conseguentemente, ritenersi esente da responsabilità quando la sua negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero il suo errore valutativo, abbiano prodotto non solo l’insorgere di una situazione di pericolo, ma anche la sopravvenienza di un conseguente evento lesivo.

Preme, dunque, anzitutto, chiarire in cosa consistano i compiti allo stesso richiesti. I compiti di un Servizio di Prevenzione e Protezione (e, quindi, del suo responsabile) sono ora previsti dall’articolo 33 d.lgs. 81/2008. Nello specifico si tratta di: individuare i fattori di rischio, valutare i rischi e individuare le misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro rispettose della normativa vigente e che si adattino alle specifiche esigenze aziendali (art 33, comma I, lett. a); elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive del documento di valutazione dei rischi ed i relativi strumenti di controllo (art. 33, comma I, lett. b); redigere le procedure di sicurezza per le diverse attività aziendali (art. 33, comma I, lett. c); proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori (art. 33, comma I, lett. d); partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro e alla riunione periodica prevista dall’art 35 (art 33, comma I, lett. e); fornire ai lavoratori le informazioni previste dall’art 36 (art. 33, comma I, lett. f)[6].

In altri termini, il R.S.P.P. è il vero “fulcro” del sistema sicurezza dal momento che tale soggetto deve favorire con il proprio operato una politica di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, oltre che controllare che venga data attuazione agli interventi previsti dal documento di valutazione dei rischi predisposto. La significatività del ruolo che tale soggetto assume nelle dinamiche aziendali è tanto più rimarcata dal fatto che il datore di lavoro è tenuto a verificare che il R.S.P.P. (e gli ulteriori soggetti incaricati) abbia(no) le capacità e i requisiti professionali adeguati ai rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi all’attività svolta dall’azienda. La necessità di requisiti e capacità dal carattere non generico ma specifico e qualificato in ordine alle esigenze dell’attività evidenzia come suddetto soggetto sia portatore di competenze tecniche (conoscitive) di cui il datore di lavoro e l’azienda si avvalgono.

A dimostrazione della crescente rilevanza assunta dal ruolo del R.S.P.P. nelle dinamiche aziendali, sempre più frequentemente, la giurisprudenza è stata chiamata ad esprimersi sugli eventuali profili di responsabilità penale dello stesso nello svolgimento delle sue funzioni e ad affrontare il rapporto sussistente fra i compiti previsti in capo al R.S.P.P. ed i reati di omicidio e di lesioni colpose di cui agli art. 589 e 590 c.p. che si verifichino in seguito alla violazione di norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

L’elaborazione giurisprudenziale penale è così solita distinguere fra l’individuazione di responsabilità prevenzionali, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, e di responsabilità per reati colposi di evento (quali infortuni o malattie professionali).

Per quanto attiene alla prima tematica, è noto come, in materia di contravvenzioni, la responsabilità penale derivi anche dalla mera colpa lievissima (che può assumere le forme della culpa in eligendo e/o della culpa in vigilando). Ne consegue, pertanto, che seppure l’inosservanza del precetto da parte del datore di lavoro sia conseguita da un errore di valutazione del R.S.P.P., il datore di lavoro risulterebbe, ugualmente, unico responsabile dell’inosservanza dei precetti infortunistici prescritti, giacché unico destinatario della previsione legislativa; in altri termini, al datore di lavoro si verrebbe a rimproverare l’errore di valutazione commesso dal R.S.P.P., dal momento che tale errore non si sarebbe verificato se vi fosse stata una maggiore diligenza nella scelta o nel controllo dell’attività consulenziale.

Per quanto, invece, concerne il secondo profilo, allorché l’(in)attività (o, in senso più lato, la condotta) del R.S.P.P. abbia determinato un evento lesivo, l’individuazione della responsabilità penale deve esser compiuta alla stregua dei normali criteri di imputazione penale. Pertanto, nel caso in cui un R.S.P.P. abbia violato i doveri a lui imposti dal decreto e, agendo (anche soltanto) con colpa, abbia indotto il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, lo stesso soggetto potrebbe risultare responsabile (insieme al datore di lavoro) dell’evento di danno derivato, essendo a lui (astrattamente) ascrivibile una “colpa professionale” che potrebbe assumere, in certi casi, addirittura un carattere di esclusività. In altre parole, il R.S.P.P., esercitando i propri compiti, potrebbe accollarsi, al pari di qualsiasi consulente (tecnico) privato, l’onere di riconoscere ed affrontare le situazioni e i problemi inerenti al ruolo rivestito, secondo lo standard di diligenza, capacità e conoscenze tecniche richieste per il corretto svolgimento della “delicata“ funzione. Ove si registrasse un eventuale deficit di diligenza nello svolgimento delle proprie mansioni si dovrebbe, perciò, indagare se ciò ha avuto un nesso con il (determinarsi ed il) verificarsi dell’evento.

3. La significatività del ruolo ricoperto connota il “carico” di responsabilità assunto. Profili critici

La rilevanza del ruolo ricoperto dal R.S.P.P., sopra genericamente descritta, ha evidenziato l’astratta possibilità per tale soggetto di essere considerato penalmente responsabile “insieme” al datore di lavoro dell’evento a causa dalla violazione degli adempimento volti a garantire la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Emerge, quindi, la necessità di sindacare l’ipotesi di un “concorso di responsabilità” tra il datore di lavoro e il R.S.P.P. ed, in particolare, considerata la tematica che più interessa, quanto disposto dall’articolo 113 c.p., in relazione alle ipotesi di cooperazione nel delitto colposo, ovvero “quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone”.

Ebbene, giova anzitutto chiarire come la cooperazione colposa sussista quando, da un lato, vi sia stata la volontà di concorrere nella realizzazione della condotta colposa e, dall’altro, non vi sia stata volontà dell’evento offensivo che ne consegua. In altri termini, a differenza del concorso di persone nel reato doloso (art. 110 c.p.), la volontà del concorrente nella cooperazione colposa ha ad oggetto solo la condotta e non anche l’evento lesivo che ne deriva[7]. L’articolo 113 c.p., pertanto, determinerebbe la penale rilevanza (anche) di condotte che altrimenti rimarrebbero escluse da qualsivoglia rimprovero penale; si registrerebbe così un’estensione dei confini della tipicità della condotta colposa fino a comprendervi quei comportamenti che possano aver anche soltanto agevolato, aumentando il rischio di verificazione, l’altrui fatto colposo.

Ciò detto, però, permangono alcuni punti problematici.

Si rende, perciò, opportuna una valutazione del necessario apporto causale richiesto, valutazione che poggia su un “dato di fatto” (rectius: un dato statistico!). È, infatti, notorio come la maggior parte dei reati di lesione colposa o di omicidio colposo, che interessano la disciplina della salute e della sicurezza sul lavoro, rientrino nella categoria dei cd. “reati commissivi mediante omissione”, ovvero reati nei quali l’evento consegue ad una omissione antidoverosa (penalmente rilevante in virtù della cd. clausola di equivalenza sancita dall’art. 40, comma 2, c.p.)[8]: in tal senso, occorre perciò comprendere se un R.S.P.P. possa dirsi investito dell’obbligo giuridico di impedire un determinato evento e se lo stesso ricopra una particolare “posizione di garanzia” che possa giustificare una sua conseguente (eventuale) responsabilità penale.

In dottrina, la questione trova risposta affermativa ove si aderisca alle tesi di quanti[9] considerano ammissibile un richiamo alla disciplina dell’articolo 117 c.p. (cd. concorso dell’extraneus nel reato proprio dell’intraneus): in altri termini, aderendo alla logica sottesa alle ipotesi di concorso nel reato proprio da parte di un soggetto privo di una peculiare qualifica soggettiva, potrebbe assumere rilievo penale anche la condotta di un soggetto che non sia “direttamente” obbligato. Il carattere “strumentale” della funzione ricoperta dal R.S.P.P. (e delle regole di condotta che dallo stesso si esigono) non potrebbe, dunque, erigersi quale ostacolo insormontabile rispetto all’individuazione di una responsabilità penale fondata sul meccanismo della cooperazione colposa prevista dall’art. 113 c.p.

Tale tesi, tuttavia, trova la ferma opposizione di coloro[10] che giudicano l’applicazione di suddetta logica come un tentativo volto ad operare un’indebita estensione analogica in malam partem della ratio dell’art. 40, comma 2, c.p., tentativo irrimediabilmente precluso dal principio per cui nullum crimen sine lege. In tal senso, si opererebbe la più classica “truffa delle etichette”, ovvero quella tesa ad aggirare il divieto di analogia “malevola” mediante un asserito ricorso all’istituto dell’interpretazione estensiva[11].

4. Le (più) recenti pronunce giurisprudenziali delineano il fondamento della responsabilità penale per il R.S.P.P.

Rinviando ad altra sede una ricostruzione completa ed esauriente dei diversi orientamenti giurisprudenziali succedutisi in argomento, preme qui accennare alle pronunce più significative. In particolare, si rende necessario, anzitutto, precisare come le pronunce più recenti individuino nella “funzione” ricoperta dai R.S.P.P. il paradigma di una responsabilità “in grado di incidere sulle scelte che il datore di lavoro compie e sulle responsabilità che lo stesso assume”.

Tale considerazione si evince dal presupposto logico secondo cui il R.S.P.P. è un soggetto appositamente designato dal datore di lavoro che si avvale, appunto, di una sorta di “consulente tecnico” per colmare un proprio deficit conoscitivo. Di conseguenza, un mancato adempimento (ovvero un assolvimento parziale, erroneo o, comunque, insoddisfacente) di quei compiti di carattere consultivo che la legge prevede (ed impone) a vantaggio (più che a carico) del datore di lavoro non può che fondare un’eventuale conseguente responsabilità anche del R.S.P.P., qualora ne consegua un evento lesivo della salute o della sicurezza di terzi. Come accennato, infatti, il canone di responsabilità che investe il Responsabile in questione deriva dal carattere peculiare riconosciuto alla sua figura nella gestione della sicurezza e dalla rilevanza dell’incarico assunto in relazione ad una pretesa finalità di prevenzione perseguibile (anche, o soprattutto) attraverso il suo apporto.

In passato, la giurisprudenza, assumendo diversi presupposti logici di partenza, era pervenuta a conclusioni diametralmente opposte. Ed, infatti, aveva considerato quella del R.S.P.P. come una figura meramente integrativa e strumentale rispetto a quella del datore di lavoro e, perciò, avulsa da eventuali responsabilità penali. Tuttavia, il carattere strumentale della funzione non era ex sé preclusivo per una possibile responsabilità ma, semmai, “indicativo” di una impossibilità di decisione e, perciò, di “incisione” sulle reali dinamiche aziendali. In altri termini, il risultato di negare la configurabilità di una responsabilità penale in capo al R.S.P.P., era, quindi, motivato dal fatto che tale soggetto era da considerarsi del tutto privo di poteri di decisione e di spesa in materia antinfortunistica. Secondo tale impostazione il R.S.P.P., in quanto mero consulente, svolgerebbe un’attività i cui risultati vengono fatti propri dal vertice aziendale sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato; conseguentemente, il vertice aziendale si avvarrebbe della loro opera soltanto per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario[12].

Tali prospettive, oggi, risultano come detto superate, per non dire anacronistiche.

Più recentemente, infatti, la suprema Corte ha ritenuto “non rilevante il mancato potere di decisione e di spesa” ed, anzi, ha rilevato come tale mancanza non escluda comunque un potere-dovere del R.S.P.P. di “segnalare una situazione di pericolo ai soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento”[13]. In altri termini, l’assenza di una capacità immediatamente operativa da parte di un R.S.P.P. in una struttura aziendale non può essere invocata quale “scusante” in grado di escludere la responsabilità per un’eventuale inottemperanza nello svolgimento dei propri compiti ed, in particolare, per una mancata elaborazione delle procedure di sicurezza; piuttosto, l’inadempimento di taluno dei compiti prescritti dalla legge può ben costituire un’omissione rilevante ai fini dell’accertamento di una responsabilità penale ogni qual volta un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione di pericolo ignorata dal responsabile del servizio.

Un’ulteriore argomentazione a sostegno di una presunta irresponsabilità penale del R.S.P.P. era quella che pretendeva di fondarne le ragioni sulla carenza di sanzioni a carico del soggetto in questione: ed, infatti, nella sezione dedicata alle sanzioni, il decreto legislativo 81/2008, mentre prevede specifiche sanzioni a carico del dirigente, del preposto, del medico competente e dei lavoratori, per la violazione dei relativi obblighi di competenza, nulla dice in ordine all’eventuale violazione dei compiti dei componenti del S.P.P., nonché del suo responsabile.

Il fatto, però, che il decreto abbia escluso sanzioni penali (o anche amministrative) per le eventuali violazioni dei componenti interni o esterni del R.S.P.P. non significa che costoro siano totalmente esonerati da qualsiasi responsabilità penale derivante da attività svolte nell’ambito dell’incarico ricevuto. L’assenza di sanzioni specifiche non può, infatti, indurre a pensare che tale organo goda di una posizione privilegiata o che, addirittura, possa andare esente da qualsivoglia responsabilità.

Invero, la suprema Corte (seppur sotto la vigenza del d.lgs. 626 del 1994) ha osservato[14] come la mancata previsione di una sanzione penale a carico del R.S.P.P. non impedisca che questi possa essere chiamato a rispondere penalmente per l’inadempimento delle proprie funzioni. Ed anzi, un’affermazione in senso contrario – volta a sostenere che un R.S.P.P. nello svolgimento della sua attività non possa essere chiamato a rispondere di delitti colposi contro la vita e l’incolumità – equivarrebbe a negare l’esistenza di un obbligo giuridicamente rilevante e, dunque, comporterebbe una contraddizione rispetto alla logica stessa del sistema predisposto. Del resto, come sopra accennato, il testo normativo individua nell’apparato prevenzionistico aziendale un soggetto, il R.S.P.P., incaricato di monitorare costantemente la sicurezza degli impianti e di interloquire con il datore di lavoro affinché quest’ultimo assuma ogni iniziativa idonea a neutralizzare i possibili rischi. In altre parole, il R.S.P.P. rappresenterebbe, per certi versi, una sorta di longa manus del datore di lavoro. L’assenza di un’individuazione specifica di sanzioni in capo al R.S.P.P. troverebbe, quindi, la propria giustificazione, ancora una volta, nella peculiarità della funzione ricoperta dal R.S.P.P. e nella maggiore importanza che questo ha acquistato rispetto agli altri soggetti sopra menzionati.

La Cassazione afferma, altresì, che occorre distinguere il piano delle responsabilità prevenzionali derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo da quello delle responsabilità per reati colposi di evento. E, dunque, se il R.S.P.P., agendo con colpa, abbia omesso di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro a non adottare una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, nelle forme della cooperazione sopra descritte.

La medesima pronuncia evidenzia, ancora una volta, come seppure non vi siano “poteri di amministrazione attiva in materia di adeguamento dei luoghi di lavoro, e segnatamente di intervento e di spesa, può tuttavia esservi responsabilità colposa per l’infortunio” e come “l’assenza di poteri immediatamente efficaci sulla struttura aziendale non esclude che i relativi inadempimenti possano integrare un’omissione rilevante tutte le volte in cui un infortunio sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa ignorata dal R.S.P.P.”

La Cassazione[15] è, dunque, ormai pacifica nel ritenere che la responsabilità del R.S.P.P. – indiretta ed additiva rispetto a quella del datore di lavoro – vada affermata ogni volta che lo stesso, a seguito di un inadempimento dei propri compiti, “ometta di indicare la presenza di un rischio attraverso la propria consulenza di carattere strumentale”, ovvero l’adozione di una determinata misura idonea, e, conseguentemente, si verifichi un infortunio riconducibile casualmente a suddetta omissione. In altri termini, già prima dell’entrata in vigore del d.lgs 81/2008, e a maggior ragione dopo, la particolare significatività del ruolo ricoperto, pare(va) far individuare una posizione di garanzia antinfortunistica (rilevante ex art. 40, comma 2, c.p.) anche in capo R.S.P.P. – seppur limitata ai compiti espressamente previsti dalla legge.

Rimane inteso che, alla stregua dei principi generali del diritto penale, la responsabilità del R.S.P.P. non “sorgerà” in maniera automatica con il verificarsi di qualsiasi infortunio: perché ciò avvenga è, infatti, necessario che l’evento costituisca la concretizzazione del rischio che la norma cautelare era volta a prevenire.

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