CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE FEMMINILE E PROCESSI DI SEGREGAZIONE PROFESSIONALE


Come abbiamo osservato nelle pagine precedenti, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è stata facilitata e sollecitata, tra gli altri fattori, dalla terziarizzazione dell’economia e dall’espansione, all’interno dei sistemi economici più avanzati,del settore dei servizi.
La terziarizzazione dell’economia ha sedimentato la presenza delle donne in alcuni ambiti di attività rispetto ad altri e ancora oggi la distribuzione dell’occupazione femminile continua a caratterizzarsi per profonde differenze rispetto a quella maschile.
Sia nelle attività industriali che nei servizi, inoltre, la presenza femminile si concentra in alcuni ambiti di attività.
A fronte di una quota di occupate che nel 2008 si attesta al 43,1% del totale, i settori a maggiore presenza femminile sono l’istruzione, la sanità,i servizi sociali (dove le donne rappresentano il 74,7% del totale degli occupati) e gli altri servizi pubblici sociali e alle persone (65,1%).
A conferma di quanto osservato precedentemente, dunque, la presenza femminile tende a concentrarsi nel settore pubblico (istruzione, sanità, servizi sociali e alla persone),dove in genere le lavoratrici hanno a disposizione, più frequentemente che altrove, una pluralità di strumenti di conciliazione: orari di lavoro short full time; maggiore facilità rispetto al settore privato di ottenere part-time; flessibilità dell’orario di lavoro (in entrata e in uscita);
relativa autonomia nella gestione del monte ore (settimanale e/o mensile).
Oltre ad una presenza che tende a concentrarsi in alcuni contesti produttivi rispetto ad altri fenomeno che viene definito “segregazione di tipo orizzontale”le cittadine toscane, al pari di quelle italiane, mostrano una propensione al lavoro autonomo decisamente più contenuta rispetto agli uomini.
La diversa propensione dei due generi verso il lavoro autonomo complessivamente considerato deve essere ricondotta, ancora una volta, alla minore disponibilità di tempo e di energie che le donne, all’interno del loro work life balance, possono/vogliono dedicare al lavoro per il mercato.
È evidente, infatti, che lo svolgimento di un lavoro autonomo implica spesso un forte coinvolgimento personale nella propria attività lavorativa e un elevato impegno in termini di tempo (Irpet, 2007).
La segregazione occupazionale delle donne toscane non è soltanto di tipo orizzontale.
L’analisi del tasso di femminilizzazione nelle diverse professioni, infatti, oltre a confermare la maggiore concentrazione delle occupate in alcune aree piuttosto che in altre nell’area dei servizi rispetto al manifatturiero; in alcuni ambiti del terziario rispetto ad altri delinea la presenza di fenomeni di “segregazione verticale”.
Anche nella nostra regione, infatti, la presenza femminile tende ad essere prevalente in corrispondenza di quei profili professionali che nella scala gerarchica delle organizzazioni pubbliche e private occupano le posizioni medio-basse.
Facendo riferimento alla fotografia scattata dall’Indagine Istat Forze di lavoro per il 2008, si osserva che se le donne rappresentano complessivamente il 43,1% degli occupati, i tassi di femminilizzazione risultano ben più elevati per le professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi sociali, culturali, di sicurezza e di pulizia (61,6%), per le professioni impiegatizie (61,4%) e nell’area delle professioni non qualificate (55,9%).
Come appare evidente dal grafico 14, per contro, la presenza femminile si riduce sensibilmente considerando le professioni con profilo più elevato:
nell’ambito delle professioni intellettuali, scientifiche e ad elevata specializzazione le donne rappresentano il 47,2%, ma la loro presenza crolla al 30,9% per le professioni apicali (legislatori, dirigenti e imprenditori).
L’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, dunque, si è caratterizzata per una duplice forma di segregazione: da un lato le donne si sono indirizzate prevalentemente verso alcuni settori produttivi; dall’altro verso aree professionali di livello medio basso nella scala gerarchica delle organizzazioni produttive.
All’interno di uno scenario che sembra mantenere immutate le sue caratteristiche,l’analisi di lungo periodo, tuttavia, lascia intravedere nel contesto toscano alcuni segnali incoraggianti, che certamente riflettono il forte investimento in istruzione e formazione della componente femminile.
La flessibilità del lavoro rappresenta ormai da qualche decennio un tema al centro del dibattito pubblico e scientifico: si tratta infatti di una delle dimensioni che maggiormente hanno influito sulla dinamica e sulle trasformazioni dei mercati del lavoro contemporanei.
La crisi della grande impresa manifatturiera, e il venir meno dei presupposti tecnologici,economici e sociali del modello produttivo taylor-fordista, le forti pressionicompetitive a livello internazionale, con l’emergere di nuove economie in forte espansione, la terziarizzazione dell’economia sono tutti fattori che hanno posto nuove sfide alle economie avanzate, soprattutto in termini di abbattimento dei costi di produzione e di lavoro.
Allo stesso tempo la spinta verso la flessibilità del lavoro è determinata anche dalle trasformazioni dell’offerta del lavoro, in termini di una maggiore autonomia e selettività rispetto alla domanda, a seguito del progressivo ingresso nel mondo del lavoro di nuove componenti della popolazione (donne, giovani, anziani ecc.) che richiedono una diversa modulazione degli orari di lavoro e forme parziali dell’occupazione per rispondere ad esigenze di accrescimento delle proprie credenziali educative e delle proprie competenze professionali, di conciliazione tra la vita familiare e il lavoro extradomestico, ma più in generale di pluralizzazione degli interessi e delle appartenenze sociali.
A questa richiesta in Italia è stata data una risposta in ritardo rispetto ad altri paesi europei che da più tempo hanno affrontato il dibattito sulle trasformazioni del mondo del lavoro e sulla flessibilità del lavoro.
Il processo di deregolamentazione parziale e selettiva del mercato del lavoro prende avvio con l’approvazione del “pacchetto Treu” nel 1997 per poi arrivare fino alla L. 30 del 2003, che razionalizza e introduce nuove tipologie contrattuali fino a ben 21 diversi rapporti di lavoro atipico.
Oltre al numero dei lavoratori a termine, che abbiamo visto essere per la Toscana sostanzialmente in linea con la media europea, è importante affrontare la questione della diversa distribuzione nella popolazione dei rischi di accesso al lavoro flessibile.
Infatti, una qualunque valutazione degli effetti e delle conseguenze del lavoro instabile è inevitabilmente diversa, se l’esperienza della flessibilità si distribuisce in maniera omogenea all’interno della popolazione oppure si concentra su alcuni soggetti portatori di specifiche caratteristiche sociali.
Così come accade a livello nazionale, i dati per la Toscana mostrano come la flessibilità dei rapporti di lavoro riguardi prevalentemente le fasce di primo ingresso nell’occupazione:
tra gli occupati con meno di 30 anni, quasi il 40% è un dipendente a tempo determinato (a fronte del 31% nel 2004). Tuttavia, nel corso degli ultimi quattro anni, l’occupazione a termine sembra essere cresciuta in misura significativa non solo tra i giovani, ma anche e soprattutto tra gli adulti, arrivando a rappresentare il 15% tra i trentenni e oltre il 9% tra i quarantenni.
Un altro aspetto che risalta nell’analisi delle condizioni di lavoro degli occupati a termine riguarda l’ampia diffusione di forme di sottoccupazione, con contratti di breve durata.
Oltre 1/3 dei lavoratori temporanei è impegnato non più di trenta ore settimanali e il 25% non supera le 20 ore settimanali.
L’altra questione decisiva per valutare la qualità dei lavori flessibili è rappresentata dal ruolo che essi svolgono nella carriera professionale degli individui:
sono trampolini verso occupazioni più sicure oppure trappole da cui non si riesce ad uscire,se non verso la disoccupazione o l’inattività?
A questo proposito riportiamo i risultati della Prima indagine longitudinale sui lavoratori flessibili in Toscana (Giovani, 2007) che ha seguito i percorsi professionali di un campione di circa 1800 individui41 avviati con contratti a termine nel 2000 a 4 e a 6 anni distanza da tale avviamento.
I risultati mostrano come le probabilità di stabilizzazione non aumentino in maniera lineare nel tempo:
il tasso di stabilizzazione dopo aver raggiunto il 42% dopo 4 anni dall’avviamento a termine (quindi circa il 10% annuo), nei due anni successivi cresce solo di 6 punti percentuali, evidenziando una riduzione significativa dei passaggi al lavoro stabile e invece un incremento delle transizioni verso la disoccupazione.
Ad esiti pressoché simili sono giunti in Veneto, ricostruendo i percorsi professionali degli avviati al lavoro sulla base dei dati amministrativi dei centri per l’impiego:
il tasso di stabilizzazione dei soggetti con un contratto a tempo determinato cresce sino a sfiorare il 40% nei primi tre anni, dopodiché quasi si arresta.
Dai risultati di queste prime ricerche, sembra che trascorso un certo lasso di tempo (3-4 anni) le probabilità di stabilizzazione dei lavoratori instabili tendono a diminuire in maniera drastica, mentre crescono i rischi di intrappolamento nel carosello dei lavori precari e/o di uscita verso la disoccupazione o l’inattività.
Se prendiamo in considerazione anche le caratteristiche degli individui, è evidente che i lavori atipici non abbiano avuto un effetto trampolino verso il lavoro stabile, efficace allo stesso modo per tutti e ovunque.
Sono soprattutto le donne adulte a sperimentare i più bassi tassi di stabilizzazione:
solo il 42% di queste ultime a distanza di 6 anni lavora attualmente in modo stabile,a fronte del 61% degli uomini. Il rischio di intrappolamento coinvolge i misura più elevata i non più giovani (solo il 51% degli ultra 35enni si è stabilizzato contro il 42% dei più giovani).
Il legame esistente tra livello di istruzione ed esiti evidenzia come le più elevate probabilità di stabilizzazione siano sperimentate dai diplomati (il 52% si è stabilizzato contro il 47% di coloro che non sono in possesso di nessun titolo di studio e il 43% dei laureati).
Il risultato, a prima vista controintuitivo, legato agli alti livelli di istruzione,che vede i laureati stabilizzarsi e permanere più degli altri nell’ambito della flessibilità,in realtà si inquadra pienamente nelle dinamiche della forza lavoro più istruita:
i laureati sperimentano performance lavorative ascendenti nel tempo e premianti nel lungo periodo, a partire però da livelli iniziali anche inferiori a quelli dei soggetti meno istruiti.
Nell’arco degli ultimi trent’anni l’Italia ha mutato radicalmente il proprio ruolo all’interno dello scenario internazionale, trasformandosi da paese di emigrazione a una delle principali destinazione dei flussi migratori internazionali.
La spontaneità con cui si è verificata tale trasformazione ha colto di sorpresa le istituzioni che si sono mostrate sostanzialmente impreparate a gestire sul piano amministrativo e politico il fenomeno, con ovvie ripercussioni sulle modalità di costruzione del modello italiano di inserimento dei migranti, in primo luogo all’interno del mercato del lavoro.
Un modello che, come evidenziato da molti studiosi, si è edificato progressivamente “dal basso”, alimentato dall’informalità che ha presieduto -e ancora presiede i meccanismi di incontro tra le richieste del sistema economico e un’offerta del lavoro, che nella sua componente straniera, mediamente giovane, costantemente alimentata dalla forza delle catene migratorie, risulta caratterizzata da una spiccata propensione al lavoro, da un’elevata adattabilità e disponibilità ad accettare unskilled jobs.
La Toscana, quinta regione in Italia per incidenza degli stranieri sulla popolazione totale dopo Emilia Romagna, Umbria, Veneto e Lombardia, conta al 1 Gennaio 2009 quasi 310mila residenti, pari all’8,4% della popolazione (la media italiana è del 6,5%),e si compone per circa un quinto di minori (di cui 6 su 10 nati in Italia) e per il 52% di donne.
Le nazionalità maggiormente numerose risultano, nell’ordine, la Romania (64mila residenti),che scavalca l’Albania (62mila presenze), quindi la Cina, la quale nonostante la battuta di arresto dei “nuovi” flussi si conferma come la terza comunità (poco più di 26mila residenti), il Marocco (24mila) e più distanziata la comunità degli immigrati dalle Filippine (circa 9500). Tra le 5mila e le 10mila presenze si trovano anche Polonia,Ucraina, Macedonia, Senegal(IRPET,2009).
Nel panorama nazionale la Toscana rappresenta una delle regioni maggiormente attrattive nei confronti degli occupati di origine non italiana: al 2008 la nostra regione è quinta per incidenza percentuale degli occupati stranieri sul totale (9,4% contro una media nazionale del 7,6%).
Se guardiamo alla dimensione quantitativa dell’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro, attraverso i due principali indicatori, il tasso di occupazione e quello di disoccupazione, si conferma l’immagine di una popolazione caratterizzata da un’elevata propensione a partecipare al mercato del lavoro.
Il tasso di occupazione degli stranieri risulta superiore a quello degli italiani (68,8% contro 65%), con divari particolarmente accentuati nel caso della componente maschile (oltre 7 punti percentuali),mentre nel caso delle donne il gap è decisamente più contenuto (rispettivamente 57,5% e 56%) .
I diversi livelli di partecipazione al mercato del lavoro tra stranieri e italiani scontano la diversa composizione per età delle due popolazioni, in particolare la diversa incidenza della componente anziana della forza lavoro, che in generale tende ad avere un minor tasso di partecipazione.
Tuttavia anche tenendo conto della diversa composizione per età, l’inserimento occupazionale degli stranieri risulta più elevato.
Tra le donne le differenze appaiono più evidenti.
Solo tra le giovanissime si ravvisa una situazione di relativo equilibrio, dopodiché il divario rispetto alle coetanee italiane si amplifica raggiungendo il massimo tra le 35-44enni.
Così come si verifica per le donne autoctone, la situazione familiare è la variabile che spiega maggiormente i comportamenti dell’offerta femminile e le sue performances nel mercato del lavoro.
In parte il fenomeno può essere attribuito ad un orientamento al lavoro più debole da parte delle donne straniere appartenenti ad alcuni gruppi nazionali, soprattutto in presenza di figli e di responsabilità familiari. Ma particolarmente rilevante diventa nel caso delle donne straniere la questione della conciliazione del lavoro con le responsabilità familiari, in una situazione complessiva di carenza di servizi pubblici e di elevati costi per i servizi privati, e spesso in assenza del sostegno familiare delle reti primarie di cui le italiane possono ancora disporre.
Il positivo profilo dell’inserimento occupazionale si accompagna, tuttavia, a marcati processi di segregazione occupazionale dei lavoratori, e ancor più delle lavoratrici immigrate, come confermano la concentrazione in specifici settori dell’economia e la sovrarappresentazione nei lavori manuali, con scarsi contenuti di qualificazione,con poche opportunità di carriera e scarsa riconoscibilità sociale, andando a colmare i vuoti occupazionali, imputabili sia a motivi demografici, sia alle aumentate aspirazioni professionali delle nuove e più istruite generazioni autoctone.
Da un punto di vista settoriale, per gli uomini è evidente la concentrazione nell’edilizia (37%), dove si prospetta una vera e propria sostituzione rispetto all’offerta di lavoro autoctona impiegata solo per l’11% in questo settore.
Nel caso della componente femminile, il principale ambito di inserimento delle donne straniere è rappresentato dai servizi alle famiglie (33%), dove ormai rappresentano 1/3 dell’occupazione complessiva, a conferma di una domanda rilevante in questo settore alimentata dai mutamenti strutturali della nostra società:
l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle condizioni di non autosufficienza, la diminuzione delle famiglie complesse.
Ancor più evidente che per settore la segregazione occupazionale degli stranieri lo è per livello professionale. Circa un quarto degli occupati stranieri risulta inserito nella fascia inferiore del sistema occupazionale, con un’ampia sovrarappresentazione nelle professioni non qualificate in cui è richiesta nella maggior parte dei casi capacità di forza fisica e resistenza:
manovale edile, bracciante agricolo, operaio nelle imprese di pulizia, collaboratore domestico, assistente familiare, portantino nei servizi sanitari, ecc.
In questa categoria la quota di donne straniere sale a oltre il 34% contro solo il 15% delle donne italiane.
Nel gruppo degli artigiani, operai specializzati e operai semiqualificati si colloca oltre il 40% degli stranieri occupati a fronte del 27% degli italiani, con una netta prevalenza di forza lavoro maschile (64% degli uomini stranieri, contro il 37% degli uomini autoctoni).
Vi rientrano elettricisti, carpentieri, falegnami, operai addetti alle macchine meccaniche, camionisti, ovvero professioni in cui il lavoro manuale rimane comunque preminente, anche se con margini di responsabilità e autonomia più ampi rispetto al personale non qualificato.
Circa il 17% degli stranieri rientra nel gruppo delle professioni del commercio e servizi,presumibilmente in larga misura in qualità di commesse, cuochi, camerieri, baristi e magazzinieri.
Forti squilibri nella distribuzione professionale tra stranieri e nativi sono sempre esistiti anche nei paesi di vecchia immigrazione, ma erano imputabili ad altrettanto evidenti squilibri nei livelli di istruzione. In realtà in Italia, come del resto in Toscana, in molti casi i cittadini stranieri sono in possesso di buoni livelli di istruzione (il 13% ha una laurea, il 32% un diploma).
Rispetto ad un modello di inserimento nel mercato del lavoro che, anche nel caso toscano,risulta essere prevalentemente di integrazione subalterna degli stranieri, un elemento di “mobilità” è rappresentato dallo sviluppo di attività indipendenti.
Negli ultimi otto anni, periodo di grandi difficoltà nell’economia nazionale e regionale, in Toscana il numero di imprenditori stranieri è più che raddoppiato, passando dai 23mila nel 2000 ai quasi 49mila nel 2008, a fronte di una sostanziale stabilità rispetto alla componente italiana (+1%).
L’incidenza sul totale degli imprenditori passa dunque dal 4% all’8%. Alla tendenza espansiva del numero di imprenditori si affianca un’accentuazione delle specificità che caratterizzano le modalità di inserimento nel lavoro autonomo da parte dei cittadini stranieri, in primo luogo in termini settoriali con elevate concentrazioni in settori specifici dell’economia regionale, in particolare le costruzioni,dove la percentuale di imprenditori stranieri passa dal 12% al 29%, seguite dal commercio (26%) e dalle attività manifatturiere (21%) (Pacini, Savino, 2010).
La presenza degli immigrati sul mercato del lavoro è legata a vario titolo anche al lavoro sommerso, che nel caso della popolazione migrante si declina tra l’impiego di persone non in regola con le norme del soggiorno, l’occupazione “in nero” di stranieri regolarmente soggiornanti e le frequenti irregolarità della normativa sul lavoro di diversa natura, talvolta negoziate tra le parti. (“fuori busta”, irregolarità di inquadramento professionale, negli orari di lavoro, ecc.).
Dall’osservazione del trend del fenomeno degli ultimi 15 anni risulta chiaro come la quota di lavoratori irregolari e privi di permesso viene drasticamente ridotta dalle regolarizzazioni che si sono via via succedute.
A queste succede però il “passaggio” nell’area del lavoro nero e “grigio” dei regolari, mentre per quanto riguarda i settori interessati i maggiori tassi di irregolarità si riscontrano innanzitutto nelle attività stagionali (agricoltura, commercio, ecc.), quindi anche nei servizi domestici e nelle costruzioni, tutti comparti in cui notoriamente si concentra il lavoro degli stranieri (Beudò, Giovani, Savino, 2008).

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