LA PARTECIPAZIONE FEMMINILE AL MERCATO DEL LAVORO: LE TRASFORMAZIONI DI LUNGO PERIODO


Le statistiche testimoniano come nel corso degli ultimi due decenni la partecipazione femminile al lavoro sia sensibilmente aumentata: da un lato, infatti, le donne sono sempre più propense a lavorare; dall’altro cresce il loro grado di inserimento all’interno del tessuto produttivo.
Molti e diversi sono i fattori che, spesso combinandosi fra loro, hanno alimentato la crescita dell’occupazione femminile.
Alcuni di natura prettamente economica hanno reso più appetibile l’accesso al lavoro (Irpet, 2007).Non vi è dubbio,infatti,che la transizione dell’economia verso la produzione di servizi ha rappresentato un fattore formidabile per l’inserimento delle donne all’interno del mercato del lavoro,sia per i contenuti delle professioni che per i modelli organizzativi basati su tempi di lavoro più contenuti come, ad esempio, nella distribuzione commerciale, negli alberghi e ristoranti, nei servizi alla persona e, naturalmente, nel pubblico impiego e su un aumento seppure ancora non adeguato alla richiesta di opportunità di lavoro part-time.
Altri fattori di natura socioculturale- hanno inciso sui comportamenti e sulle scelte delle donne, modificandone l’allocazione del tempo e delle risorse tra lavoro per il mercato e impegni familiari.
In effetti, l’analisi di lungo periodo della propensione a lavorare nel dettaglio delle diverse fasce di età mette in luce che anche le donne toscane hanno profondamente modificato il tempo e lo spazio dedicato al lavoro nel loro percorso di vita.
Se, infatti, il tasso di attività complessivo relativo cioè alle donne di età compresa fra i 15 e i 64 anni è cresciuto fra le donne toscane di 13 punti percentuali fra il 1993 e il 2008, le differenze per gruppi di età sono assai significative.
L’aumento del tasso di attività ha interessato soprattutto le donne nelle fasi centrali e della maturità: +15,5% per le 35-44enni e +25,6% per le 45-54enni.
Nonostante l’accresciuta partecipazione, tuttavia, le criticità rimangono molte, evidenziando la necessità di progettare e sviluppare nuove e più efficaci politiche “di genere”, che mirino da un lato ad incrementare la partecipazione femminile e dall’altro a tutelare la qualità del lavoro delle donne.
Il basso livello della partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua a rappresentare uno dei principali problemi strutturali dell’economia e della società italiana.
In effetti, il grado di inserimento complessivo delle donne italiane e toscane nel mercato del lavoro resta, a paragone con i comportamenti prevalenti nei paesi dell’Unione Europea, ancora molto limitato. Ciò si traduce da un lato nella difficoltà di alcuni segmenti della popolazione femminile ad accedere a un reddito (e, quindi,nella possibilità di compiere scelte autonome); dall’altro, pone un forte limite all’espansione dell’offerta di lavoro disponibile (ISTAT, 2007).
Un’ulteriore area di criticità, che in questa sede ci limitiamo ad accennare, riguarda gli enormi differenziali territoriali che caratterizzano la Toscana.
La crisi finanziaria scoppiata negli USA nell’estate del 2008 e poi trasformatasi nella più grave recessione del dopoguerra sta pesando in maniera rilevante sugli equilibri dei mercati del lavoro di quasi tutti i paesi, con significative perdite di posti di lavoro e un conseguente innalzamento del tasso di disoccupazione. In Toscana, se almeno fino al II trimestre del 2009 si è verificata una sostanziale tenuta occupazionale (+0,2%)37, a partire dal III trimestre si registra la prima seria battuta di arresto, con una perdita di 31mila occupati (-2%) rispetto al corrispondente trimestre del 2008,determinando una diminuzione anche del tasso di occupazione (dal 66% al 64,8%)(Regione Toscana, IRPET, 2010).
Le dinamiche sopra evidenziate sono la sintesi di molteplici aspetti di criticità, che si ripercuotono in maniera diversa sulla forza lavoro. E il genere sembra rappresentare una variabile rilevante nello spiegare i diversi effetti della crisi sulla partecipazione al lavoro.
La perdita di posti di lavoro si traduce in genere in un aumento delle persone in cerca di un’occupazione, così come non è infrequente che congiunture negative determinino un allargamento dell’area dell’inattività, che risente di fenomeni di scoraggiamento circa la possibilità di trovare un’occupazione, particolarmente evidenti nelle regioni meridionali e nella componente femminile della popolazione.
Nelle uscite verso l’inattività sono compresi, soprattutto per le più giovani, anche il ritorno allo studio o la fine di lavori stagionali.
In effetti nell’ultimo anno si è verificata una significativa crescita della componente inattiva (circa di un punto percentuale), imputabile esclusivamente alla dinamica femminile (+2% a fronte di una diminuzione della componente maschile dell’1,4%). Sono in crescita le donne che non cercano un impiego e non sono disponibili a lavorare (si tratta della componente più numerosa della popolazione inattiva, che può mascherare attività sommerse più che riflettere fenomeni di semplice scoraggiamento, ed è cresciuta del 3%), ma aumenta in misura significativa.
Nel corso degli ultimi due decenni, i tassi di attività e di occupazione delle cittadine toscane sono sensibilmente aumentati. Contestualmente a tale incremento si osserva un mutamento significativo del modo in cui le donne partecipano al lavoro nelle diverse fasi della loro vita. In particolare, la presenza femminile si è decisamente rafforzata in corrispondenza delle classi centrali di età -fra i 35 e i 44 anni- ed è diminuita per le giovanissime -dai 15 ai 24 anni.
Il fenomeno è descritto nel grafico riportato di seguito, da cui emergono due elementi su cui è interessante soffermare l’attenzione. In primo luogo, se per la componente maschile poco o nulla è cambiato fra il 1993 e il 2008, durante lo stesso periodo di tempo le donne hanno profondamente modificato il loro modo di stare sul mercato.
In altre parole, si osserva come nel corso degli anni la curva del tasso di occupazione per età dei due generi abbia assunto, almeno nella forma, un profilo simile.
Le molte analisi realizzate a livello nazionale e locale mettono in evidenza come le cause del gender gap siano diverse. Per le giovanissime la partecipazione più contenuta deve essere ricondotta alla maggiore permanenza, rispetto ai loro coetanei maschi, nei circuiti dell’istruzione e della formazione.
Nel caso delle donne nelle fasi centrali della vita, la minore partecipazione è da ricondurre essenzialmente agli impegni familiari che, in Italia più che negli altri Paesi europei, costituiscono ancora un ostacolo all’inserimento e/o alla permanenza della componente femminile nel mercato del lavoro. Non vi è dubbio, infatti, che la distribuzione asimmetrica dei carichi di lavoro domestico, l’offerta ancora insufficiente di servizi per l’infanzia e un sistema di welfare che non sostiene adeguatamente le famiglie, rendono assai difficile la conciliazione tra lavoro per il mercato e impegni familiari.
L’incremento dei livelli di istruzione fra le donne non ha inciso soltanto sui tempi e sulle modalità del loro ingresso sul mercato, ma ha contribuito a modificare complessivamente i modelli di partecipazione, con rilevanti implicazioni sui comportamenti sociali e familiari.
L’“effetto-istruzione” ha rappresentato -e continua a rappresentare una variabile formidabile nel sostenere l’inserimento e la permanenza delle donne sul mercato del lavoro.
In merito, due sono gli aspetti su cui soffermare l’attenzione: in primo luogo la relazione fra le due variabili si presenta decisamente più marcata fra le donne che non fra gli uomini per i quali, in effetti, non si rilevano differenze nei tassi di occupazione in corrispondenza dei livelli di istruzione medi e alti. In secondo luogo, il gender gap si riduce al crescere del livello di istruzione. In altre parole, a fronte di uno svantaggio femminile di quasi venticinque punti all’interno del gruppo di persone con bassi livelli di istruzione, la differenza scende al di sotto di quattro punti percentuali fra i laureati,delineando una situazione molto vicina alla parità.
La maggiore partecipazione delle donne in possesso di titoli di studio elevati rispetto alle altre e la situazione di quasi parità rispetto alla componente maschile del mercato del lavoro può essere ricondotta a due diversi ordini di motivi: uno di natura‘motivazionale’;
l’altro di natura prettamente economica (Irpet, 2008). Le donne che hanno investito nel loro percorso formativo svolgono mediamente lavori più gratificanti e qualificati rispetto alle altre, mostrando in genere un maggiore attaccamento al loro ruolo.
Allo stesso tempo, i lavori svolti sono spesso meglio retribuiti:
ciò consente da un lato di acquistare sul mercato quei servizi a pagamento che almeno in
parte compensano il minor tempo dedicato dalle donne al loro ruolo di care giver all’interno della famiglia; dall’altro, si riduce il gap salariale all’interno della coppia che,in una logica di tenuta del bilancio familiare, assai spesso condiziona le scelte di minore partecipazione o di uscita nei casi in cui il carico di lavoro di cura all’interno della famiglia aumenta (in seguito, ad esempio, alla nascita di un figlio o al sopraggiungere di condizioni di non autosufficienza dei componenti più anziani).
Oltre al livello di istruzione, un’altra variabile che condiziona in maniera significativa la partecipazione e la presenza effettiva delle donne sul mercato è rappresentata anche in Toscana, così come nel resto del Paese, dalla condizione familiare.
Se focalizziamo l’attenzione sulla fascia centrale di età momento cruciale per le scelte di fecondità e la conseguente gestione dei carichi familiari da un lato e per lo sviluppo dei percorsi di carriera dall’altro- la correlazione fra partecipazione al lavoro e condizione familiare evidenzia comportamenti assolutamente divergenti per uomini e donne.
I dati riportati indicano chiaramente come nel caso degli uomini la presenza di figli ne aumenti la propensione alla partecipazione (tanto in termini di disponibilità che di presenza effettiva); nel caso delle donne, per contro, questa si riduce in maniera significativa.
Il tasso di attività e di occupazione degli uomini con almeno un figlio di età inferiore ai 6 anni risultano superiori a quelli, già elevati, degli uomini senza responsabilità genitoriali.
Nel caso delle cittadine toscane, per contro, la relazione è evidentemente opposta: avere uno o più figli in età prescolare da accudire riduce tanto la disponibilità a lavorare (la differenza nel tasso di attività rispetto alle donne senza figli è di oltre undici punti), quanto la presenza effettiva sul mercato (le donne senza figli hanno un tasso di occupazione superiore all’80%, che scende al di sotto del 70% fra coloro che hanno con almeno un figlio in età prescolare).
Per quanto concerne la componente femminile, infine, è interessante osservare che anche in Toscana, coerentemente con quanto rilevato a livello nazionale (Isfol, 2009),non si registrano differenze significative nei tassi di disoccupazione dei due gruppi di donne di età compresa fra i 25 e i 49 anni. In altre parole, il fatto che il minore tasso di occupazione delle donne con figli si accompagni ad un tasso di disoccupazione non particolarmente elevato conferma il fenomeno dello “scivolamento nell’inattività”di molte mamme, che non lavorano e che non hanno neppure intenzione di cercare un lavoro.

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