evoluzione storica della normativa e la disciplina previgente

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Sin dagli anni cinquanta, il lavoratore oltre che beneficiario delle norme prevenzionistiche, è stato annoverato fra i debitori dell’obbligo di sicurezza. Il sistema, tuttavia, non gli aveva attribuito alcun ruolo prevenzionale, nonostante egli operasse, personalmente, all’interno dell’organizzazione produttiva, a diretto contatto con le fonti di rischio e fosse in grado di fornire un contributo estremamente utile per individuarle e fronteggiarle. Nei primi provvedimenti legislativi in materia, non si rinviene alcuna previsione normativa di tal genere. L’art. 2087 c.c., infatti, prescrive obblighi di sicurezza esclusivamente a carico dell’imprenditore. La legislazione degli anni cinquanta, che ha regolamentato organicamente la materia della sicurezza, invece, sanciva alcuni obblighi esattamente e puntualmente determinati, anche a carico del lavoratore. Il d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, in particolare, all’art. 6, prescriveva doveri di carattere generale, cui il lavoratore era tenuto, diretti a regolare qualunque tipo di attività. Il medesimo decreto fissava ulteriori doveri specifici, inerenti una particolare lavorazione 2 e all’art. 392 individuava le sanzioni da applicare in caso di violazione di tali prescrizioni. Il d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, analogamente, all’art. 5, prescriveva obblighi di carattere generale. Vi erano, poi, ulteriori articoli che sancivano diversi obblighi specifici 3 e, l’art. 60, che prescriveva le sanzioni in caso di violazione degli articoli precedenti . Vi erano, dunque, nel nostro ordinamento, alcune specifiche, limitate, disposizioni in materia di obblighi di sicurezza a carico dei lavoratori che imponevano loro di attenersi a regole predisposte da altri soggetti, in particolare, dal datore di lavoro. Sebbene, sin dagli anni cinquanta, il legislatore italiano si fosse mostrato più sensibile rispetto a quello degli altri paesi e avesse approntato un corpus normativo con finalità prevenzionistiche, prevedendo anche alcuni obblighi a carico del lavoratore, altissimo è stato, tuttavia, il numero di infortuni e malattie professionali concretamente verificatisi. Ciò in quanto il sistema prevenzionale italiano presentava, prima della riforma di ispirazione europea, una esemplarità solo formale e apparente che veniva poi, nei fatti, smentita. Al verificarsi di un evento lesivo, infortunio o malattia professionale che fosse, la magistratura, chiamata a individuare i soggetti responsabili di omicidi o di lesioni personali e a punirli, infatti, non si è molto interessata del comportamento del lavoratore, delle sue posizioni di vincolo e dei suoi eventuali inadempimenti, imputando le responsabilità unicamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, in considerazione delle loro attribuzioni e competenze, fornendo una interpretazione particolarmente rigorosa e severa delle norme dell’ordinamento prevenzionale: oltre a verificare la violazione delle norme tecniche (non sempre al passo coi tempi ma, al contrario, molto spesso obsolete e inadeguate) ha sempre richiamato l’art. 2087 c.c. – conferendogli una rilevanza pubblicistica – e, più di rado, gli artt. 437, 451 c.p. Nemmeno la dottrina ha mostrato particolare interesse alle posizioni di responsabilità del lavoratore e al suo ruolo. La spiegazione risiede, probabilmente, nella diffusa convinzione che la normativa in materia di sicurezza avesse natura pubblicistica, piuttosto che privatistica e tutelasse interessi di carattere generale. Su questo particolare aspetto della sicurezza sul lavoro, dunque, è accaduto, in controtendenza rispetto a quanto di solito accade in ogni altro ambito della materia , che il legislatore si sia mostrato più sensibile rispetto alla dottrina e alla giurisprudenza. Per lungo tempo, dunque, il lavoratore ha rivestito un ruolo sostanzialmente passivo e marginale, non essendo chiamato a collaborare con gli altri soggetti obbligati alla predisposizione di un ambiente di lavoro sicuro e a mantenere gli standards di massima sicurezza tecnologicamente fattibile imposti dalla normativa. La situazione non è cambiata nemmeno con l’avvento della normativa di ispirazione europea, c.d. di prima generazione. Il d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e il d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 77, in materia di prevenzione dei rischi derivanti dall’esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici, in linea con la normativa precedente, sancivano agli artt. 6, il primo e 4, il secondo, doveri di carattere generale a carico dei lavoratori, il cui contenuto era molto simile a quello dei d.P.R. degli anni cinquanta, con l’inserimento, per la prima volta, dell’obbligo di sottoporsi alle visite mediche (art. 6, lett. f). Erano, altresì, previste, dal solo d.lgs. n. 277/1991, diverse norme specifiche . La presa d’atto della crisi della legislazione precedente e, l’ormai, l’improcrastinabile attuazione delle direttive europee, hanno determinato un cambiamento di prospettiva da parte del legislatore degli anni ‘90. La normativa italiana, sino ad allora fondata, sostanzialmente, sulla decretazione degli anni cinquanta e sull’art. 2087 c.c., è stata, dunque, fortemente innovata dal d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626, ispirato da tutta una serie di direttive europee risalenti ai primi anni novanta, che ha determinato un vero e proprio sconvolgimento tellurico nella materia, assegnando un nuovo ruolo al lavoratore. L’art. 5, in particolare, prescriveva obblighi di carattere generale cui si aggiungevano una serie di prescrizioni specifiche fissando, poi, l’art. 93 le sanzioni da applicare in caso di violazione di quelle prescrizioni. Le prime manifestazioni di interesse in ordine al ruolo concretamente attribuito ai lavoratori nel sistema prevenzionale da parte della dottrina, sono arrivate, proprio all’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 626/1994. Si sono susseguiti, poi, ulteriori provvedimenti normativi: il d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, che ha generalmente inasprito le sanzioni poste a carico dei lavoratori dalla normativa degli anni cinquanta); il d.lgs. 2 febbraio 2002, n. 25, il d.lgs. 10 aprile 2006, n. 195 e il d.lgs. 25 luglio 2006, n. 257, che hanno abrogato integralmente il d.lgs. n. 77/1992 e il d.lgs. n. 277/1991, recependo e adeguando, anche alla luce del d.lgs. n. 626/1994, la relativa disciplina in materia di protezione dai rischi da rumore, piombo e amianto. Il primo problema che ci si è posti in dottrina è stato se la nuova normativa di derivazione europea, avesse abrogato la precedente ovvero se quest’ultima continuasse ad avere efficacia. In assenza di un’esplicita abrogazione della normativa precedente, si nutrivano forti dubbi in ordine alla perdurante vigenza di quasi tutte le norme che nella decretazione degli anni cinquanta prescrivevano doveri generali e doveri specifici a carico dei lavoratori (concernenti particolari lavorazioni o l’uso di determinati macchinari o attrezzature). I dubbi erano ancora più fondati in considerazione del fatto che gli ambiti di applicazione della riforma di ispirazione europea e dei decreti degli anni cinquanta non coincidevano completamente, permanendo, anzi, ampi settori di attività sottratti alla disciplina della prima e regolamentati solo dai secondi

Tratto da L’individuazione e le responsabilità del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro di Mariantonietta Martinelli I WORKING PAPERS DI OLYMPUS – 37/2014 

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